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Al di là del fascismo dell'antifascismo  da "AURORA" n° 45 (Gennaio 1998)

F. G. Fantauzzi

Riappropriazione del fascismo

 

La caduta dei muri, e la conseguente inefficacia dei patti di Yalta hanno aperto un'epoca diversa e peggiore, non l'auspicata nuova era che avrebbe dovuto imprimere alla storia un corso più rapido e dato al mondo un volto più umano. Anche il risveglio delle nazionalità conculcate nell'Oriente europeo e in Asia e i recuperati valori etnici che, in un primo tempo, parvero far propria l'espressione più genuina dei fermenti che precedono le stabili aggregazioni, cioè gli Stati fondati su basi etnico-spirituali, sulle tradizioni affettive e autoctone, sulla cultura, l'arte, la religione e le speranze comuni, si va risolvendo in uno scissionismo caotico e violento. Nella completa latitanza europea, ancora una volta, le truppe e la diplomazia americane l'hanno fatta da padrone.

Per quel che attiene all'Italia, la corruzione generalizzata funzionale alla prima repubblica, non si vuole debellare e la repellente pratica del complotto e delle manovre di corridoio è assurta a permanente tratto distintivo della repubblica nata dalla resistenza.

Avanza su tutti i fronti il mondialismo e si afferma l'inganno antropologico della innaturale marcia del genere umano verso una società indifferenziata a carattere planetario. Osservando come vestono giovani, come si comportano nelle scuole, nelle discoteche e nelle metropolitane, non si può non convenire nel giudizio del De Gobineau: «Non discendiamo dalle scimmie, ma ci stiamo avvicinando ad esse».

Nient'affatto nuovo, il mondialismo odierno è soltanto una più perversa accentuazione dell'etica capitalistica originata dal crollo del socialismo, incentrata sempre, sulla povertà e sull'impoverimento. In sede internazionale, la povertà endemica dei popoli poveri deve reggere il peso della maggiore opulenza di quelli ricchi; in sede nazionale, la crescita dell'impoverimento delle fasce economicamente più deboli è il prezzo da pagare per consolidare e aumentare la ricchezza di quelle ricche.

Così descriveva il mondialismo del suo tempo Pio XI: «Non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell'economia in mano a pochi e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui però dispongono a loro grado e piacimento... sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare... non meno funesto ed esecrabile, l'internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del danaro, per cui la patria è dove si sta bene». (1)

Ancorché realisticamente inevitabile, Maastricht non fa davvero presagire capovolgimenti catartici o decisive svolte storiche tali da arrestare la corrente materialistica che tutto sommerge e degrada. I suoi sostenitori ignorano totalmente l'inesauribile patrimonio culturale e spirituale europeo e non ambiscono affatto a darsi un minimo di unità politica e un apparato militare in grado di difenderlo. Ciò è perfettamente logico, atteso che da che mondo è mondo gli uomini hanno strenuamente difeso soltanto ciò che considerano prezioso e inalienabile. Radicale negazione della concezione spirituale e religiosa dell'esistenza umana, il programma di Maastricht si limita al meccanico livellamento economico-finanziario degli Stati membri dell'UE. Certo, l'Europa è importante. Ma si deve riflettere sul perché ci si deve entrare e sul come rimanerci. E non mi pare un modo dignitoso l'entrarvi quasi a dispetto dei più e il restarci come periferia negletta di super-poteri centrali non controbilanciabili da parte di uno Stato che abbia svenduto le proprie migliori industrie alle multinazionali extra-europee, che vanti un debito pubblico enorme e che è sul punto di essere travolto dalla criminalità e da una secessione che non demorde dai suoi obiettivi disgreganti.

Una coraggiosa antropologa sostiene che: «La ricchezza dell'Europa è, al contrario, proprio quella di possedere al suo interno, formatesi durante un lunghissimo processo storico, in base a scambi, conflitti, invasioni, rivoluzioni, espressioni artistiche diversissime fra loro. Se c'è una prova che l'omologazione uccide l'intelligenza questa la si può trovare proprio nella ricchezza creativa della parte occidentale dell'Europa ...». (2)

Non si tratta quindi, come sempre è avvenuto nella storia, di un nascere, crescere, vivere amare, soffrire, gioire e morire, bensì di un programmare il proprio suicidio sin dalla vita pre-natale. E un aborto inevitabile è pur sempre un aborto. Ma non fu K. Marx a sostenere che l'economia capitalistica era stata capace di meraviglie non inferiori alle piramidi egizie, agli acquedotti romani e alle cattedrali gotiche?

Per abbattere questo mondo -in cui il 20% degli esseri umani consuma oltre l'80% delle risorse- nacque il fascismo. Esso dunque ci vedrà in perenne e radicale contrapposizione. In esso nondimeno vivono e operano persone rette e capaci che aspirano ad un destino più degno. L'arma per combattere la «nuova barbarie» non può che essere l'incompiuta Rivoluzione di Mussolini, che fu detta appunto la «rivoluzione della qualità e dell'intelligenza». Non necessariamente però, al termine «rivoluzione» devesi connettere l'idea di sconvolgimento violento e di ricorso alle armi ma può, anzi deve, implicare anzitutto il concetto di trasformazione ontologica dell'uomo, nel senso esistenziale dell'essere nel mondo e del perché e in qual modo esserci. Mussolini è il campione di questa rivoluzione. È necessario perciò estrapolare il fascismo dal contesto della destra conservatrice in cui è stato subdolamente relegato e restituirlo al popolo che Mussolini soleva chiamare «proletario e fascista»: proletario, prima che fascista. E deve essere una vera e propria riappropriazione di ciò che ci appartiene per diritto di fedeltà. Fra le tante pubblicazioni sull'argomento, il recente libro di G. L. Manco, "La città fiorita", va decisamente nella giusta direzione. È auspicabile che in tale direzione vengano orientate ulteriori e più consistenti iniziative non soltanto editoriali.

I programmi del '19, le leggi e le enunciazioni della RSI costituiscono la nostra più preziosa eredità, la sola certezza di crescita civile del popolo italiano e rispecchiano altresì la sintesi delle istanze dei lavoratori di tutti i continenti. La soppressione delle società anonime industriali e finanziarie; la eliminazione di ogni speculazione, delle banche e delle borse; la confisca delle rendite improduttive; la proibizione del lavoro al di sotto dei 16 anni; il bando ai parassiti che non si rendano utili alla società; la confisca dei beni ecclesiastici per devolverli ad istituzioni di assistenza, la terra ai contadini, con coltivazione associata; la socializzazione di tutte le attività produttive e non; la statizzazione delle banche d'interesse nazionale e degli istituti di credito pubblico, la limitazione del diritto di proprietà; il commercio privato che tocca le necessità vitali del popolo -alimentazione, abbigliamento, case dei lavoratori, ecc.- sostituito dalla cooperazione; la trasformazione del diritto «di» proprietà in diritto «alla» proprietà della casa, non sono «mal digerita letteratura del passato», ma un «credo» politico per il quale molti sono caduti e punto di riferimento imprescindibile. Un fondamentale documento illumina il nostro cammino: «Sono da avversare tanto gli sbandamenti verso il collettivismo bolscevico quanto i tentativi plutocratici di sopravvivenza attraverso il compromesso. Il sistema sociale fascista non rappresenta una via di mezzo tra la conservazione capitalistica e il comunismo. È un sistema nuovo e a sé stante, il quale non si ferma al di qua del comunismo, sebbene lo supera così come supera la società capitalista. Eventuali tendenze al collettivismo bolscevico non costituirebbero affatto un estremismo dinamico rispetto al programma sociale del fascismo repubblicano: costituirebbero invece un richiamo reazionario verso forme di super-capitalismo statale quali quelle bolsceviche, che la nostra rivoluzione considera altrettanto sorpassate quanto una società che si basi sulla conservazione borghese». (3)

Eredità la cui essenza dobbiamo disseminare e fare fecondare nella società post-industriale e post-moderna, per dar vita al procedere contestuale dell'espansione produttiva e dell'evoluzione, sociale, morale e culturale dei protagonisti del mondo del lavoro, convinti che ogni libertà che non sia anche sociale ed economica si traduce nella più turpe delle beffe. Per introdurre, di contro al titanismo acefalo della produzione diretta al solo profitto di pochi, una più umana concezione del lavoro che renda sempre più partecipativa e feconda ogni attività. Per cancellare una volta per sempre lo schiavistico concetto di «mercato del lavoro», travolgendo tutti gli egoismi e gli edonismi, che permettono la convivenza di obesità e morti per fame. Per riconciliare l'umanità alle forze trascendenti dello spirito e l'uomo con l'uomo. Per sovvertire l'economia classica del mercato e trasformarla in una economia che ponga al centro e fondamento della propria ragion d'essere la persona umana, onde essa non sia più contro, ma al servizio dell'uomo e perché non si debba più parlare di errori e orrori economici. Per avviare a soluzione i problemi fondamentali del genere umano in quanto riguardano la cultura, i valori autentici, le linee di pensiero e i nuovi orizzonti di senso, attraverso l'adozione di stili di vita legionari, austeri, alieni da condizionamenti materialistici. Per restituire consapevolezza al fine, all'importanza e al senso del lavoro come fattore di elevazione e di miglioramento qualitativo dell'esistenza, un lavoro che non distolga dagli affetti, ma li rinsaldi e li santifichi nell'attingimento di un bene comune, che sia davvero di tutti e di ciascuno.

Ma dobbiamo munirci delle speciali doti di cui il termine tedesco «Sendung» è così denso da non essere traducibile nella lingua italiana se non con la fusione delle parole «missione-vocazione-dedizione». Non dogmi, dunque, ma punti di movenza donde l'azione politica fascista, in quanto ispirata da spirito legionario, risolve i problemi come essi si presentano. Di tutte le sciagure che possano accaderci, il distacco dalle origini sarebbe il più grande. Esse anzitutto ci dicono che esiste un solo fascismo e che esso non è di destra né di sinistra. Se però, dall'esame dei programmi, delle intenzionalità e delle azioni concrete dei fascisti, taluno vorrà arguire che il fascismo è un fenomeno politico-sociale di sinistra, abbia almeno la perspicacia di collocarlo all'estrema sinistra, atteso che l'odierna sinistra si palesa come un'eterogenea accozzaglia di rottami di un male inteso marxismo di marca bolscevica e come guardia bianca della plutocrazia. E prenda atto che esistono concezioni politiche originali derivanti da profonde analisi della realtà umana e sociale, che trascendono la vaga e stantia toponomastica parlamentare ottocentesca, nonché del fatto incontestabile che finora il social-comunismo è stato il più valido alleato del capitalismo.

 

Riappropriazione del Mussolini rivoluzionario

Per gli scopi appena indicati, è opportuno, a mio avviso, anzitutto prendere le distanze da coloro i quali hanno finto di credere che a Fiuggi si sia perpretato un tradimento, poiché ivi si è semplicemente concretizzato un atto di mero opportunismo politico scaturito da un ragionamento semplicissimo che presso a poco suona così: «fingere di essere fascisti non paga più, quindi, smettiamola e passiamo ad altre finzioni». Ciò del resto era perfettamente in linea con le aspettative di un «ambiente» fuorviato il quale, mentre s'imponeva alle nostre genti smarrite e confuse per l'azione corrosiva dei media e delle parrocchie una delle peggiori sventure antropologiche della sua storia, per cui la Nazione sconterà per secoli le conseguenze devastanti del meticciato, non ha mosso un sol dito. Ciò è potuto avvenire per aver disatteso certezze scientifiche inoppugnabili. Uno dei più eminenti scienziati contemporanei sostiene che «Con l'inizio della differenziazione etnica, anche nella psiche collettiva si assiste allo sviluppo di divergenze essenziali. Per tale motivo non è possibile trapiantare lo spirito di un'etnia straniera in globo nella nostra mentalità, senza grave offesa per questa (...) ogni livellamento produce la diffusione di odio e di rancore nel represso e misconosciuto, e ha per effetto di impedire una vera comprensione tra gli esseri umani». (4)

Fiuggi, in sostanza, ha prodotto la fine di uno degli equivoci più equivoci della politica italiana, il missismo. Di tradimento infatti parlano soltanto coloro i quali intenderebbero perpetuare lo status quo ante per altri 50 anni. E tuttavia, per ragioni imperscrutabili, una sola Fiuggi non basta per essere ricevuti a Gerusalemme e per trattare vantaggiosamente con l'Ulivo dalle radici giudaiche. Viene imposta perciò una ennesima e più solenne abiura. Questa avrà luogo in una sede-simbolo, Verona, dove fu approvato lo storico «manifesto programmatico del PFR».

Fisichella promette un programma tanto «liberal» da potersi considerare come controrivoluzionario per eccellenza e quindi di sicuro gradimento del «padrone». Parafrasando Leone XIII, si può affermare che destra e fascismo sono essenzialmente inconciliabili, così che optare per l'una significa separarsi dall'altro.

All'evento si annette inusitata importanza: il "Corriere della sera" del 9/12/97 gli dedica una intera pagina. Il quadro che se ne ricava però assume toni e aspetti deprimenti. Incerte, sulla scena si muovono prima le comparse, De Corato, La Russa, R. Costa, Serra e Maceratini, il quale non rinuncia a fare una furbesca dichiarazione: «va bene -dice- bollare l'esperienza di Salò se contemporaneamente si fa chiarezza (ma senza bollare; N.d.R.) su episodi come le stragi delle foibe e i massacri compiuti dai partigiani a guerra conclusa». Tutto sommato, il miserando spettacolo fa pensare a un padrone che impartisce l'ordine a dei cani sonnacchiosi e recalcitranti i quali, infine, con la coda fra le gambe, obbediscono. Ciò nonostante la scialba pagina sembra improvvisamente vivacizzarsi e conseguire qualche esito comico allorché l'intervistatore-suggeritore, guadagnato il proscenio (inconsciamente riferendosi ad Israele, sua patria naturale o d'elezione) afferma che il fascismo e la RSI furono «dittatura, sopraffazione, odio, morte, guerra, deportazione ...». Costui, come si vede, se la cava assai male in fatto di storia patria, ma conosce bene i suoi polli. Infatti, per vincere la ritrosia anistica, chiama a fargli da «spalla» il vecchio Tremaglia il quale, narrate banali vicende personali, con un guizzo di inimitabile fantasia bergamasca, alla volpina domanda: «È ancora fascista?», risponde alla Verdone: «In che senso?» E precipita nel più squallido avanspettacolo. Resosi subito conto che l'intervista veniva registrata e che l'enorme gaffe sarebbe apparsa sul più diffuso quotidiano nazionale, per un attimo il pallore della morte gli s'imprime nel largo volto di pentito impenitente. Cala la tela. Si spengono le luci. Attori, comparse e pubblico restano avvolti nella nebbiosa mestizia meneghina. Tutto sommato una pagina da buttare. Invece, dopo qualche giorno ("Corsera" del 15/1/97), si tenta una replica; Violante dichiara che Fini: «... fa un lavoro di grande importanza per il Paese», come a dire che il Paese val ben una passeggiata a Gerusalemme e qualche capocciata sul muro del pianto, ma la faccenda cade nel nulla: il pubblico ha subìto il lavaggio del cervello, donde ogni suo componente da homo sapiens è stato ridotto a homo demens. Nulla importandogli che magistrati, poliziotti e funzionari si sbranino a vicenda; che ministri, presidi, professori e studenti distruggano quel poco che rimane della sacra istituzione scolastica; che la droga abbia raggiunto i cancelli degli asili infantili; che i pedofili perseverino nelle loro turpi malefatte e che il papa porga saluti e benedizioni a tutti tranne a coloro i quali -come vuole il buon Dio si guadagnano il pane col sudore della fronte; tale pubblico è a tal segno costernato per le ingiuste accuse rivolte agli sfortunati Previti e Berlusconi che nessuno si domanda neppure di quale Paese si tratti.

Invano Altomonte andava ammonendo che: «Se ciò che vuole la maggioranza è bene, l'ignoranza, la pigrizia e la volgarità creeranno in breve una comunità di inetti, che esigerà una rapida trasformazione in oligarchia, come in tutti i regimi apparentemente democratici dell'epoca contemporanea». (5)

Abiure, delazioni, travisamenti e mascheramenti non nuovi, mediante i quali l'antifascismo potè costruirsi -come aveva previsto M. Bardeche- un fascismo a sua immagine e somiglianza: «Nasceranno falsi fascismi. La democrazia è astuta. Nella sua agonia avrà sudori e incubi, e questi incubi consisteranno in tirannie brutali e ringhiose, disordinate; ci saranno dei fascismi dell'antifascismo». Essendosi instaurato con la sua laida creatura un processo di simbiosi, ora l'antifascismo, congenitamente incapace di produrre il benché minimo fermento innovatore, non può più fare a meno di essa. E ciò, sebbene non vi sia violenza più grave alla verità (ampiamente dimostrata da insospettabili pensatori e storici italiani e stranieri) di presentare ancora il fascismo e i fascisti come affatto privi di pensiero e di dottrina, eredi di un costume politico di marca codina e reazionaria, votati alla sola religione della violenza.

S'impone dunque la necessità di rivificare gli aspetti del Mussolini demitizzato, senza orpelli, del «figlio del fabbro», dell'uomo che è carne e sangue del popolo, del socialista rivoluzionario che adotta la camicia nera come simbolo di umiltà prima che di coraggio, del campione generoso di un'Italia più giusta e più grande con una missione universale da compiere, dell'ideatore del movimento più giovane e più significativo del XX secolo, destinato a svolgere ancora, nel contesto della naturale disuguaglianza degli esseri umani, la sua funzione plasmatrice di più alte coscienze; del rivoluzionario che attinse luce interiore ed energia operativa dalle inquietudini, dai fermenti e dalle passioni di intere generazioni, del Capo di governo che comunica alla Nazione di aver assicurato il pane al suo popolo con la Bonifica Integrale, del Duce sconfitto che fonda la prima Repubblica Sociale della storia e che, infine, di contro alle menzogne partigiane, muore lottando in difesa della sua dignità di uomo. (6)

È un compito essenziale.

Nell'opinione pubblica si è gradualmente compiuta la rimozione, nel senso di deattivazione-inibizione di ricordi e i impulsi suscettibili di produrre inquietudini e sensi di colpa, del Mussolini rivoluzionario. La lezione di Mussolini va intesa, invece, come istanza di superamento di tutti gli egoismi, personali e di gruppo, quale unico mezzo atto rendere possibile l'avvento dell'«uomo nuovo» nella storia. Tale progetto mussoliniano potrà attuarsi soltanto se noi (e quelli che verranno dopo di noi) sapremo creare la convergenza consapevole di spiriti indomiti e incorruttibili nella fondazione di un vero «Ordine di credenti e di combattenti», il quale sappia assumere come artico di fede la libertà di tutti, e porsi come obiettivo primario il bene-essere dell'intera umanità. Poiché la vera libertà, in quanto bene supremo, nasce soltanto dall'amore per il mondo e per l'uomo, non dalle pseudo-libertà proprie al materialismo meccanicistico dei «figli del caos».

È noto che nel corso del secolo che volge al tramonto, grazie alle tecnologie e ai media, il genere umano ha subìto mutamenti tanto radicali che non hanno tralasciato alcun aspetto della sua esistenza. Tuttavia l'umanità non è matura sotto il profilo socio-culturale ad accoglierli in modo fecondo. Talché essa si sta docilmente facendo trascinare verso un «mondo di uguali» in cui imperano individui «più uguali» degli altri che, guarda caso, vivono prevalentemente negli USA, dove l'1% della popolazione possiede il 61% dei beni ivi esistenti e dove una popolazione che rappresenta il 6% di quella mondiale, consuma circa il 36% delle risorse disponibili nel Pianeta.

 

Netta chiusura alla destra conservatrice

L'argomento rende necessario ridestare la memoria storica in chi tenda a smarrirla e a svilupparla in quanti ne siano privi. Ciò al fine di individuare e sottoporre a vaglio critico erronei comportamenti del passato che, anche nel presente, si palesano come esiziali per la prosecuzione di un'azione politica di per sé non scevra di notevoli difficoltà.

La chiusura fu provocata dalla destra con l'adesione all'atlantismo e all'occidentalismo, e con la sua rinuncia ai valori patriottici e culturali che furono propri alla destra tradizionale italiana. In secondo luogo, perché essa nega il principio irrinunciabile su cui si fonda lo Stato fascista, cioè «l'immedesimazione assoluta della vita dello Stato con quella dell'individuo», la quale eleva «ogni cittadino al grado di funzionario pubblico», in quanto «tra l'homo oeconomicus e il civis, solo per un capriccio dialettico è possibile isolare la qualità di cittadino dal soggetto dell'economia politica». (7)

Lo Stato fascista, pertanto, non è uno Stato da adorare o da temere, retto cioè da una oligarchia arbitraria di tipo bolscevico, che fa tutto e che pensa per tutti, ma è un organismo vitale di cui tutti i cittadini sono parte integrante effettiva, e che tutti, ogni giorno, sono chiamati a migliorare e a far progredire in ragione dell'azione responsabile, intelligente e libera di ciascuno.

Per queste ragioni, mentre si preparava la «legge Scelba», la dirigenza missista decise di attuare la campagna di de-fascistizzazione del MSI, le cui iniziali connotazioni nazional-rivoluzionarie, recando in sé la sintesi delle istanze risorgimentali, del socialismo nazionale, del sindacalismo rivoluzionario e della RSI, avrebbero reso inevitabile l'incontro con i socialisti, nonostante Nenni, con i socialdemocratici, ad onta di Saragat, e con i repubblicani mazziniani, di contro le strumentalizzazioni massoniche. Il pericolo di tale evenienza, scongiurato nel '24 con l'assassinio di Matteotti, si ripresentava più probabile che mai dopo 30 anni. Conseguentemente, vennero adottati provvedimenti tali da indurre i fascisti nell'errore di abbandonare il Movimento, sbattendo la porta. Errore grave quanto si vuole, ma non era concepibile aderire all'assurda opinione secondo cui l'unità d'intenti si debba ricercare e garantire attraverso tortuosi compromessi. Ciò contraddice la norma morale basilare dell'etica legionaria racchiusa nella regola aurea romana, quindi universale, «ubi exstimatio, ibi amor», non può esservi amore senza la reciproca stima. Donde l'istanza morale, essendo intrinsecamente connessa all'agire personale, la philìa (amicizia-amore-affinità) e quindi la sintonia e l'unità d'intenti può virilmente concretizzarsi soltanto nell'incontro -cosciente e libero- sulle comuni idealità da perseguire e, ogni diversa condotta, sganciata da quel presupposto non può che rivelarsi instabile, foriera di disgregazione e priva di effettiva valenza etica.

La concezione morale cristiana che pre-suppone la compatibilità fra amore alle persone e la disapprovazione dei loro comportamenti (il condannare cioè il peccato e non il peccatore), si regge sulla più smaccata ipocrisia. Il cristiano Scelba e i suoi cristiani successori, infatti, condannano indiscriminatamente fascismo e fascisti.

Per i legionari della RSI, la nuova azione politica altro non era che la trasposizione del militare «modo d'essere per la patria» nel civile «modo d'essere per gli altri». Non si concepiva, pertanto, solidarizzare e affrontare rischi e sacrifici accanto ad individui che s'erano trasformati in politicanti ciechi e sordi ai richiami degli ideali e rinchiusi in una visione tanto meschina dell'esistenza da ridursi all'istigazione continua alla divisione degli animi e al reciproco inganno nella sub-umana contesa per le candidature, per l'affannosa ricerca dei voti, ecc.

Ne rimasero padroni i faciloni, i tentennanti, gli sprovveduti e gli opportunisti. Disconoscendo l'intimo legame fra pensiero e azione, gli insegnamenti della Dottrina erano percepiti come un qualcosa dai contorni concettuali sfumati, indecisi e avulsi da chiare giustificazioni razionali. Come gli ex-cristiani, mortificando la figura stessa del Cristo e rinnegandone il Vangelo, erano diventati demo-cristiani, parimenti gli ex-fascisti, rinnegando la loro Dottrina, da rivoluzionari divennero uomini d'ordine, sostenitori della Confindustria, delle forze di polizia, del Vaticano e della Nato. Sono del parere che certe verità debbano essere palesate interamente, poiché se non le diciamo noi, i più anziani, come potremmo comunicarle ai più giovani e questi a quelli che verranno? Chi è il fascista, un eterno dissimulatore o l'uomo del coraggio e della libera e responsabile capacità di chiamare le cose con il loro vero nome? Ritengo non sia fuori luogo perciò attirare l'attenzione non tanto sugli episodi di una sciagurata stagione di transigenza e di collusione con forze estranee e nemiche, quanto sulla connessione esistente fra la riassunzione della primigenia identità culturale e politica e la presa di coscienza storica della infelice temperie etico-morale in cui tale identità fu smarrita. L'accennato reinserimento, in effetti, consisté in un'operazione verticistica di cui i caporioni del MSI fruivano di tutti i vantaggi, mentre la base, veniva confinata nella condizione di «minore età». Condizione poi istituzionalizzata con la creazione del c.d. «arco costituzionale». Ma non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. Ben presto anche la base -sempre più eterogenea e disancorata dallo stile di vita fascista- vedeva, sapeva e si conformava alla condotta del vertice.

È vero, sono le èlites a guidare i processi di plasmazione delle idee e degli orientamenti politici, ma è anche vero che, ove le idealità da esse elaborate non corrispondano alle aspettative esistenziali e psicologiche della base, tali processi abortiscono. Quando poi un intero contesto umano privilegia ciò che conviene rispetto a ciò che è giusto e assume la finzione a permanente modello di vita, non può che crollare alle prime difficoltà. Infatti vediamo ora la base missistica completamente disorientata e in balia di tutti i venti.

Dopo la breve parentesi tattico-mimetica dell'Uomo Qualunque, ogni finzione sarebbe dovuta cessare. Non fu così.

L'aspetto più grave del reinserimento -evidentemente diretto ad accattivarsi i favori degli elementi più moderati dell'antifascismo, monarchici, cattolici e liberali- risiede fondamentalmente nel non aver continuato a contrastare i fraudolenti criteri interpretativi delle vicende italiane del 1943-45. Di fronte alla storiografia prezzolata e manichea della resistenza, era indispensabile far valere le ragioni di quanti, avendo individuato con assoluto rigore etico chi era il vero nemico-invasore, non esitarono a combatterlo. Tale individuazione assumeva perciò il ruolo di fondamento di una verità sulla quale s'incardinava la responsabilità dinanzi alla storia. Tali ragioni vennero disattese.

Con riferimento al patto d'acciaio (Italia-Germania, maggio '39) e quello tripartito (Italia-Germania-Giappone, settembre '40), la locuzione «tedesco invasore» risulta essere un'invenzione priva di fondamento storico, giuridico e morale. Tedeschi e Giapponesi erano incontestabilmente nostri alleati. Né l'unilaterale quanto ignobile rovesciamento del fronte operato dai Savoia, poteva intaccare la validità di quei patti da essi stessi ratificati. I Combattenti della RSI, infatti, non possono essere assimilati ai collaborazionisti degli altri Paesi, né mai si sentirono tali. Viceversa, i partigiani italiani, visti nel contesto delle varie resistenze europee, sono dÿÿritenere anomali, percÿÿ si opposeroÿÿÿÿ un nemico anch'esso anomalo, in quanto ÿÿrmalmentÿÿalleato. I sosteniÿÿri della RSI non possono del resto affermare, come fece P. D. La Rochelle: «Ho avuto intelligenza col nemico e mi duole che esso non fosse intelligente», per il semplice fatto che seguitarono a combattere accanto ai loro alleati contro il comune brÿÿe . Si tesi ava, al mime di rielistinare la ÿÿncordia deÿÿÿÿitÿÿÿÿni, di contribuire a scrivereÿÿÿÿstoria di quel periodo, senza alimentare false mitologie e di restituire alle loro effettive dimensioni fatti e personaggi. Ciò detto, fra combattenti della RSI e partigiani non c'è, né può esservi, alcuna «memoria comune», tranne il fatto che combatterono e rischiarono sulle opposte sponde del grande fiume dell'attendismo della assoluta maggioranza dei loro concittadini.

Ad ogni modo, il fascismo divenne sinonimo di anticomunismo e di «destra al servizio della nazione». Nazione che ha raggiunto il punto più alto di smarrimento e di crisi d'identità a seguito della celebrazione sotto l'arco di Tito del 50° anniversario dello Stato israeliano e della supina accettazione, come un diritto, della multirazzialità. Si disse -e a molti sembrò una cosa seria- «muoia la fazione purché viva la nazione». La fazione destinata a perire, ovviamente, era il fascismo e la nazione da salvare consisteva nei convergenti interessi del CLN, della massoneria e del Vaticano. Nessun sereno o obiettivo apprezzamento di quel periodo è possibile, a mio parere, senza rapportarsi a questo quadro di riferimento storico e psicologico. Donde l'urgenza di difendere con grande determinazione la nostra fazione, in quanto è la sola garanzia di sopravvivenza della nazione italiana.

Fu abolito il saluto romano e ogni altro richiamo al passato. L'interazione fra segno e idea tuttavia riemergeva sporadicamente nel momento in cui era necessario qualificarsi nell'imminenza degli scontri durante le manifestazioni di piazza. Nessuno meglio delle logge e dell'Oltretevere conosce il valore simbolico del gesto-saluto codificato, in quanto equivalente ad un esporsi, un riconoscersi, un donarsi: un se gerere che, istituzionalizzato in una comunità, esprime, realizza e attesta l'identità culturale e la fede politica di tutti e di ciascuno. Nel suo pratico manifestarsi (si pensi a quanti con il saluto romano hanno confermato la loro appartenenza dinanzi alla morte), esso si rivela altresì come attualizzazione della tradizione e della comune Weltanschauung. Più che in ogni altro saluto, la struttura di segno significante nel saluto romano, mette a nudo il suo solare contenuto spirituale di per sé aborrente l'ambiguità di chi compie soltanto opzioni che non possano coinvolgerlo in precise appartenenze. Ciò vale anche per le scelte (nell'accezione di cernita tra quel che si vuole serbare da quel che si vuole scartare) di insegne intenzionalmente surrettizie fatte proprie dai gruppuscoli sorti ai margini del MSI: asce, rune, croci uncinate, ecc., tutte unite nell'unico disegno vòlto a negare l'ideale innesto del fascismo alla romanità. La loro comprovata sterilità, se ben si guarda, è il riflesso di tradizioni culturali e ideologiche divergenti rispetto all'archetipo cui pretendono riferirsi e rivelano in chi ne fa uso l'attitudine a collocazioni politiche relativistiche e ambigue.

Mondo davvero singolare quello missista: i capi professavano idee e approntavano programmi nei quali non credevano affatto, consapevoli però che i loro seguaci, pur di sottrarsi a più impegnative responsabilità, avrebbero mostrato di crederci ciecamente.

Più che di adeguamenti organizzativi, quindi, si trattò di complesse manovre dirette a perseguire arbitrarie commistioni con monarchici e cattolici, le quali sfociarono in un partito conservatore aggregato agli ambienti più retrivi e sclerotizzati della società italiana: «il partito delle contesse». Quei pochi gruppi, che a fatica conservavano senso critico e un buon livello di «capacità offensiva», vennero sistematicamente impiegati in funzione anticomunista; ma, se oltrepassavano certi limiti, non si esitava a richiedere l'opera della polizia politica. Intere generazioni di giovani coraggiosi e intelligenti vennero sacrificati sull'altare di meschini patteggiamenti di vertice.

E non si celiava. A seguito del foglio d'ordini n° 1 del 20/5/59, che rendeva noti i nominativi dei nuovi componenti la DN della FNCRSI, fra i quali era compreso quello del deputato del MSI, A. Cruciani, con lettera raccomandata, Michelini invitò il Cruciani a scegliere entro 48 ore, tra il MSI e il nuovo incarico.

Come il PCI, per volere di Mosca, non doveva realizzare il c.d. «sorpasso», il MSI, per volere della Nato, non doveva superare una certa percentuale di suffragi. Conseguentemente, si registrarono non pochi episodi paradossali: in alcuni centri il numero dei suffragi elettorali conseguiti dal MSI risultò essere inferiore a quello degli iscritti (ciò, per ben altre ragioni, era avvenuto nel '48 in alcuni comuni del confine orientale); in altri, invece, non pochi «federali» -dietro contropartite di sottogoverno- addirittura non presentarono le liste a tutto vantaggio della DC.

Forse che i parroci e la DC non erano anticomunisti?

Ai giovani che domandano come e perché un ambiente umano di prim'ordine sia potuto cadere tanto in basso, non si può che rispondere con il motto di Mussolini: «Chi non è pronto a morire per le proprie idee non è degno di professarle». Non si sfugge: gli italiani in genere e i fascisti in specie, non sono stati degni del fascismo. In ciò risiede la più grande loro sconfitta.

Restarono nel MSI anche persone apprezzabili, capaci di pensiero autonomo e di coerenza politica (basti pensare a B. Niccolai), ma in numero limitatissimo e sempre tenute ai margini. Purtroppo, le iniziative intraprese all'interno e all'esterno del MSI, dirette ad arginarne il degrado e a dar luogo ad una inversione di tendenza, sono tutte fallite. Il libro di U. Cesarini "Dai FAR al doppio petto" descrive efficacemente il periodo di auto-involuzione del c.d. ambiente. Sagge ed energiche iniziative vennero nondimeno esperite tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60.

Il 14/6/59, assumendo la presidenza della FNCRSI, G. Pini scrisse al riguardo: «Lasciamo ad altri questa pratica rinnegatrice: lasciamo ad altri lo sfruttamento a scopo elettorale dell'ingenuo sentimentalismo degli sprovveduti, incapaci di distinguere la vera distanza delle azioni dalle sue mascherature esteriori nostalgiche e retoriche. Con tale sistema i professionisti della politica -molti dei quali non aderirono alla RSI- hanno già trasferito armi, bagagli e inconsci seguaci sulla sponda opposta a quella di partenza, e là si dedicano alle più disinvolte combinazioni ...».

A testimonianza di un'antica e sempre attuale consanguineità e unità d'intenti, trascrivo parte della seguente mozione: «Il Consiglio Nazionale del Socialismo Nazionale, riunito a Genova il 31/5/59, rilevato che la FNCRSI nel suo congresso di Firenze in data 26/4 c.a. è riuscita ad emanciparsi dall'influenza di un movimento politico resosi sempre più estraneo alle sue ragioni ideali e alle sue finalità, affidandosi invece alla guida di uomini di indiscussa coerenza politica.

I e II (omissis)

III Afferma che fine supremo della sua azione politica nel prossimo futuro rimane la riunione di tutte le forze che durante l'ultimo conflitto hanno conosciuto e servito una sola bandiera; esprimono la certezza che tale riunione potrà essere perseguita e raggiunta soltanto nell'ambito e sotto l'egida della FNCRSI».

Dunque, non soltanto nella sana teologia vige il principio che l'Errore non ha diritto di essere professato o tollerato. La manovra di reinserimento, come è noto, è sfociata nella squalificante partecipazione ad un governo che allineava la cordata più becera e arrivistica della politica italiana.

 

Conclusione

Il profilo dell'iter diretto al reinserimento, fin qui delineato per sommi capi, oltre a svolgere una funzione informativa, pone nel dovuto rilievo la nota dominante della sciagurata vicenda neofascista: la rottura del rapporto fra l'intenzionalità e la pratica rivoluzionaria del fascismo e la politica sostanzialmente conservatrice e antifascista della destra missista. Tale rottura, ancorché vista sine ira et studio, rappresenta il dramma intimo dei camerati più sensibili e coerenti.

Ad ogni modo, bisogna tener presente che sono ricomparsi biechi personaggi e hanno ripreso (se mai l'abbiano lasciata) l'antica loro funzione di «lazzari» del padrone.

Allo stesso tempo mentre, con aggiustamenti di mera forma, la politica italiana s'illude di rinnovarsi, assume connotati sempre più precisi e concreti il disegno della rifondazione della DC, quale grazioso dono per il giubileo adveniens. È il sistema antifascista italiano che s'inabissa lentamente in quel mare di menzogne e di frodi da esso stesso alimentato per oltre mezzo secolo.

È bene tenersi lontani da questo sfacelo. Il nostro compito sta nel riproporre al mondo -con serenità e convinzione- la «guerra del sangue contro l'oro». E non si pensi ai soliti fascisti guerrafondai, ché le opere del regime furono opere di pace. Quella che fu chiamata «guerra del sangue contro l'oro» non è una guerra di carri armati, di navi e di aeroplani; essa è bensì un virile richiamo alla dignità dell'uomo in ordine ad un'esistenza più umana e più giusta, e un promuovere l'opposizione e lo scardinamento del sistema mondialista, intollerabilmente oppressivo da parte dei forti sui deboli. Essa è, dunque, una contro-guerra che, come una benefica luce, deve essere irradiata sin negli interstizi delle drammatiche tensioni in cui è costretta a vivere gran parte dell'umanità. È un compito straordinariamente impegnativo, ma irrinunciabile, in quanto è strettamente concatenato alle intenzionalità originarie del movimento socialista prima e di quello fascista poi.

È vero: siamo pochi e poveri, ma, come la storia e l'esperienza insegnano, in tutti gli inizi di faccende serie e importanti, i primi non furono mai né ricchi né tanti.

Alcuni dati significativi:

* circa il 50% della popolazione mondiale è sottoalimentata; il 20% degli esseri umani consuma oltre l'80% dei prodotti; gli arsenali militari dispongono di una potenza distruttiva di circa 6.000 volte superiore a quella impiegata nel corso della IIª guerra mondiale; in Egitto il 18% di proprietari terrieri possiede oltre il 70% dei suoli coltivabili; in Bangladesh i piccoli agricoltori costituiscono il 70% delle imprese agricole, ma possiedono meno del 29% della terra; in alcuni Paesi dell'America Latina la situazione è persino peggiore. Mentre in Danimarca il reddito annuo pro capite è di 20.000$, in Mozambico esso scende a 80$ e in più di 100 Paesi è inferiore a 500$.

Non v'è dubbio che l'esplosione demografica sarà la grande protagonista del XXI secolo. Stime attendibili assicurano che nel 2.050 la popolazione mondiale raddoppierà e che il popolo italiano, persistendo nell'attuale tendenza alla ricerca del denaro ad ogni costo, del successo e dei piaceri effimeri, è destinato a scomparire.

L'esodo disperato del Curdi è soltanto la punta dell'iceberg che si abbatterà sulle fatiscenti strutture del mondo capitalista e che produrrà sconvolgimenti inimmaginabili. Se, nel breve periodo, l'Europa non troverà le idee e la forza per ricollocarsi a centro e guida della radicale trasformazione appena iniziata, ne verrà inesorabilmente travolta. Il declino dell'Impero romano, infatti, ebbe inizio quando non era più né impero né romano. Come stabilisce la Dottrina: «L'impero non è soltanto un'espressione territoriale o militare o mercantile, ma spirituale e morale».

In tale contesto la «guerra del sangue contro l'oro», può sviluppare le sue potenzialità liberatrici e concorrere efficacemente nel capovolgere tutti i sistemi di potere in atto. Ad essa si schiudono grandi orizzonti: la possibilità di essere condivisa e convissuta da miliardi di uomini oppressi e affamati i quali, attraverso l'imparziale ripartizione dei beni esistenti e futuri e la socializzazione di ogni attività produttiva, potranno realizzare -nel proprio territorio e in sintonia con la proprie tradizioni e inclinazioni- l'inappagata esigenza di giustizia e di benessere che li assilla. Solo allora i termini di indipendenza, di autogoverno e di libertà non saranno più privi di significato.

 

F. G. Fantauzzi

 

Note:

1) Lett. Enc. "Quadragesimo anno", 15/5/31;

2) I. Magli, "Contro l'Europa", Ed. Bompiani, Milano '97, pag. 40;

3) da "Dottrina e documenti", edito dal Gruppo romano della FNCRSI, Terni, '68;

4) cf. B. Hannah, "Vita e opere di C. G. Jung", Ed. Rusconi, Milano '80, pp. 316-317;

5) P. F. Altomonte, "Lo Stato di popolo", Ed. R. Giuliana, Roma '76, pag. 55;

6) In ordine alla morte del Duce esiste una ricostruzione suffragata da rilievi scientifici e circostanziali inoppugnabili, tali da renderla attendibile e idonea a dimostrare la falsità delle precedenti versioni spurie.

7) U. Spirito, "Il corporativismo", Ed. Sansoni '70, pp. 258-261.

 

http://aurora.altervista.org/index.htm


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“Folgore”: come e perché fu distrutta

(retroscena della disfatta)

prima parte

 

Di NINO ARENA

 

 

            Fu una delle poche GG.UU. del R.E. ad emergere dal grigiore e dalla mediocrità generalizzata delle FF:AA: italiane nella 2° guerra mondiale; una delle poche divisioni, che unitamente all’ “Ariete” e alla “Julia” ebbe notorietà internazionale dall’avversario, per avere conquistato, meritatamente, prestigio e indiscusso valore in una impari battaglia come fu quella di El Alamein, combattuta e persa 50 anni or sono, con grandi sacrifici da parte di migliaia di soldati italiani e tedeschi. In realtà la “Folgore” non doveva trovarsi a combattere in quel desolato campo di battaglia, ed è su questa anomala presenza, che si incentra la nostra descrizione. Se andò distrutta nel corso della battaglia, come del resto tutte le altre G.U. di fanteria italiane, l’evento deve attribuirsi ad una precisa intenzionalità dei comandi di Roma per eliminare la divisione paracadutisti, come entità fisica e combattiva, ipotesi questa che si avverò con sconcertante puntualità.

            La costituzione dei reparti paracadutisti e il loro inserimento nelle FF.AA., come specialità della fanteria, fu travagliata sin dall’inizio, il cammino reso difficoltoso da indifferenza, intralci burocratici, ostracismo e cialtroneria via via sempre più radicate nel tempo, con una escalation negativa permeata da diffusa e preconcetta ostilità, del tutto ingiustificata ma vera.

            I motivi di questa strisciante avversione ad alto livello, furono molteplici e differenziati, poiché vanno in parte ricercati nella diffidenza del vertice militare per le novità (il nostro L.E. Longo ha trattato con chiari concetti e lucidità questi argomenti sulla preparazione (o meglio impreparazione) delle FF.AA. prima del conflitto). Una diffidenza istintiva per il nuovo, per tutto ciò che esulava dall’assioma tradizionale, risorgimentale e piemontardo, del “suldat, del fusil, del mul e del canun” così caro a Badoglio ed al suo clan servile, rinnovato con qualche variante nel primo dopoguerra, ma pur sempre valido per respingere, anche per pigrizia intellettiva e professionale, ma soprattutto imposizione della casta dominante, la novità. Se accettata, per ipotesi, l’innovazione andava comunque esaminata con riserva e prevenzioni mentali a seconda dell’umore del capo, resa asfittica e inutilizzata dalla noncuranza se proposta da altri, disattesa dal disinteresse o esaminata da tiepido incoraggiamento se realizzata sperimentalmente, così come avvenne per i carri armati o per le GG.UU. celeri sorte all’insegna del compromesso del tradizionale col moderno e dell’assurdità operativa, che ne derivò, per la limitata diffusione della motorizzazione, la cooperazione cielo-terra, il rinnovo del parco artiglierie, istanze queste disattese dai compiti istituzionali del capo di Stato Maggiore Generale.

            Ed ecco i fatti. Una prima dimostrazione dell’ostilità verso i paracadutisti, si ebbe già nell’anteguerra, allorché Balbo – comandante supremo delle FF.AA. della Libia- ma anche scomodo e potenziale personaggio concorrenziale alla carica di Capo di Stato Maggiore Generale, detenuta da oltre un decennio da Badoglio, volle sfidare con audace iniziativa, l’immobilismo del vertice di comando delle FF.AA., costituendo in Libia i primi reparti di paracadutisti italiani, anche in funzione di progresso militare, per adeguarsi agli esperimenti fatti in tal senso dai più importanti eserciti del mondo (ed anche fra i minori come Cecoslovacchia, Ungheria, Finlandia).

            Se l’esperimento fosse riuscito, il quadrunviro avrebbe acquisito maggiore potere e importanza, risvegliato l’interesse per l’ammodernamento delle FF.AA. italiane dimostrando fantasia concreta e idee innovative: tutti elementi che si richiedono con la capacità professionale ad un candidato al livello superiore di comando; se invece fosse fallito, tutto sarebbe rientrato nella normalità di un esperimento mal riuscito con conseguente perdita di prestigio personale.

            Il complotto venne ordito nascostamente per realizzare la seconda ipotesi, ostacolandolo accortamente con cavilli giuridici, ordinativi, formali, difficoltà tecnico-finanziarie, procedure legislative, prerogative di comando col rifiutare ad esempio, ai militari del R.E. in Libia, di partecipare al concorso di arruolamento e la conseguente necessità per Balbo di rivolgersi al Regio Corpo Truppe Coloniali, che godevano di un ordinamento istituzionale diverso, in condominio col Ministero della Guerra, quello dell’Africa italiana e delle Finanze, per invogliare gli ascari libici ad arruolarsi.

            Le adesioni furono numerose, la selezione severa, gli arruolati numerosi anche se sussistevano fondate remore per il basso livello culturale dei nativi, difficoltà psicologiche e religiose, scarsa dimestichezza con la tecnologia, diffidenza e timori con l’aeroplano, il paracadute, il lancio dal cielo: una serie di elementi che potevano anche precludere, pur considerando l’ostracismo in atto, ad un giustificabile fallimento dell’esperimento. Le cose andarono però diversamente.

            Forte della legge n. 220 del febbraio 1937, che attribuiva all’Aeronautica la costituzione, gestione, amministrazione delle scuole di paracadutismo militare, Balbo, uomo dell’Aeronautica, si rivolse al comando della 5° Squadra Aerea della Libia da cui ottenere aerei, paracaduti, istruttori, contributi finanziari, materiale e assistenza tecnica e riuscì a eliminare, con accordi diretti fra Ministero delle Finanze e quello dell’Africa italiana, ogni ulteriore motivo giuridico ed economico che ostacolava la piena utilizzazione dei libici.

            I risultati, in contrasto con le pessimistiche previsioni dello Stato Maggiore Generale, furono superiori alle aspettative, anche se pesanti per perdite umane (17 caduti in esercitazioni lancistiche) ma in definitiva l’esperimento, che portò alla costituzione di un reggimento paracadutisti su due battaglioni libici a tutto il 1938, rimase fine a se stesso, circoscritto alla Libia, al di fuori degli interessi dello stesso Alto Comando.

            Venne ripreso in Italia, nel 1940, dopo la costituzione della Scuola militare di paracadutismo a Tarquinia gestita dalla Regia Aeronautica, anche se si ripetettero difficoltà di principio e istituzionali già riscontrate a Castel Benito di Tripoli, creando nuovi dissidi, incomprensioni e freddezza di rapporti fra Esercito e Aeronautica col risultato di rallentare la preparazione alla guerra già dichiarata, dei reparti paracadutisti, bloccandone l’attività sino al novembre del 1940, col conseguente slittamento del programma approntato alla grande dal comandante della scuola col. Pilota e paracadutista Giuseppe Baudoin De Gilette, determinato come Balbo, scomparso nel frattempo tragicamente, a realizzarlo senza guardare in faccia nessuno, con ostinazione, con pervicacia, saltando quando necessario la superiore gerarchia, parlando direttamente col Duce, per superare speciose difficoltà, inconcludenti riserve mentali, ostracismo, lacune ordinative e istituzionali (dopo tre anni dagli esperimenti di Balbo con decine di rapporti e relazioni sulle aviotruppe).

            L’idea della nuova specialità non aveva trovato credito alcuno presso gli Stati Maggiori a dimostrare la noncuranza e la cialtroneria esistente sui criteri d’impiego delle aviotruppe, sull’ordinamento, gli organici, l’armamento, i programmi addestrativi (poi approntati dal magg. SPE Giovanni Verando a Tarquinia in collaborazione col col. Baudoin). Non si era avuta ad esempio, alcuna collaborazione tecnica e materiale con i paracadutisti tedeschi e le loro esperienze di guerra (Eben Emael, Rotterdam, Narvich, Trondheim, ecc.) in applicazione al principio della “guerra parallela” ispirata da Badoglio e applicata dal suo clan.

            Fu necessario col dopo-Badoglio ricominciare dal principio utilizzando un nuovo paracadute di modello tedesco, manuali tattici, equipaggiamenti, metodi di lancio, preparazione specifica e costituzione di reparti a livello organico sempre più alto come GG.UU. anche se rimase invariato l’armamento assegnato ai paracadutisti (quello standard del R.E.) mediamente inferiore, tecnicamente superato per obsolescenza, inadatto alle aviotruppe e assegnato ai reparti in misura più limitata del 35% a quello delle GG.UU. del R.E..

            Il risultato finale di tutto questo fervore instaurato a Tarquinia da Baudoin, ottenuto in armoniosa collaborazione fra il personale della scuola del R.E. e della R.A., fu l’insorgenza ingiustificata di gelosie fuori luogo, risentimenti, prevenzioni, resistenza trasversale radicata in taluni ambienti dello SM/RE (all’epoca il deus et machina di ogni decisione era il sottocapo di SM generale Mario Roatta uomo del clan Badoglio), la cui influenza contagiò numerosi collaboratori dello stesso, generando negativamente, oltre ad un diffuso disinteresse, una imprevedibile defezione a livello superiore, manifestatasi  col rifiuto di accettare il comando della costituenda divisione paracadutisti da parte di generali dell’entourage del sottocapo, con un condizionamento mentale che valutava furbescamente l’eventualità di uscire dal clan, con pesanti riflessi sulla carriera e la conseguente necessità di rimanervi per godere di favori e privilegi.

            Una pesante atmosfera cui non era estraneo personalmente lo stesso Roatta, una strisciante contestazione che causò perplessità nell’intero SM/RE, con l’unica, lodevole eccezione del generale di brigata Enrico Frattini, ufficiale addetto al sottocapo di SM/RE, che mettendo da parte riluttanze, ingiustificate prevenzioni e timori del nulla che non facevano certamente onore a tanti suoi colleghi, si offrì volontario per il comando della divisione paracadutisti a cinquantacinque anni di età, con l’uso di pince-nez (si precettò paracadutista lanciandosi con occhialini gommati) riscattando con personale coraggio e determinazione il poco edificante spettacolo offerto dagli altri succubi generali. Fra l’altro, Frattini, proveniente dall’Arma del Genio e non da reparti operativi di linea, aveva precedenti più diplomatici che di comando (era stato per lunghi anni addetto militare a Tokio) e non rappresentava quindi l’optimum nella complessità degli elementi valutativi che si richiedevano ai candidati per diventare paracadutista e comandante di G.U. di aviotruppe, ed ottenere sia pure a malincuore il placet del suo temuto superiore.

            Ci vollero due lunghi anni a Tarquinia per completare gli organici divisionali, assolvere i gravosi compiti addestrativi, prepararsi specificatamente a scendere armati dal cielo di giorno e di notte per conquistare l’isola di Malta, primario obiettivo dell’unità –pur operando la specialità in mezzo a crescenti difficoltà- con compromessi sull’armamento, lanci notturni e manovre tattiche, addestramento in comune con i paracadutisti tedeschi sotto la supervisione del generale Ramcke. Non ci fu ancora come previsto, la dovuta attenzione da parte dei superiori comandi, la necessaria considerazione e assistenza alla nascente specialità, il cui investimento morale futuro avrebbe molto reso in prestigio e valore all’intero esercito italiano, ripagando abbondantemente con i risultati ottenuti, l’ingente costo economico pagato dalla comunità, per la preparazione e i grandi successi di così avveduta iniziativa.

            La preparazione per la C.3 (Malta) era giunta nell’estate del 1642 al 90% del programma stabilito e doveva essere realizzata fra i mesi di giugno/agosto, coinvolgendo 65.000 uomini di 6 GG.UU. di fanteria, 500 aerei e alianti, la squadra navale da battaglia e circa 10.000 militari tedeschi.

            Venne invece dapprima rinviata poi definitivamente annullata, anche se fra i motivi determinanti del suo annullamento vanno annoverati i provvedimenti arbitrariamente e ingiustificatamente adottati dallo SM/RE per snaturare l’operazione di aviolancio, trasferendo in Africa Settentrionale la divisione paracadutisti e decapitando in tal modo il corpo di spedizione, impossibilitato senza la partecipazione delle aviotruppe, (13.000 paracadutisti italo-tedeschi con 14 battaglioni e reparti speciali N.P.) ad eseguire la difficile impresa. Ed è sui motivi di questi provvedimenti che portarono alla distruzione della “Folgore”, che s’incentra la nostra narrazione.

            Nella primavera del 1942, con l’Asse vittorioso su tutti i fronti di guerra e il Giappone all’offensiva in tutta l’Asia, iniziarono a manifestarsi al vertice militare italiano, dapprima cautamente poi in forma sempre più evidente ed incisiva alcuni preoccupanti atteggiamenti; si avvertiva odore di fronda, si intravedevano comportamenti contrastanti con gli eventi in corso, si intuivano motivi controproducenti con la realtà avvertendo, quasi tangibilmente, la presenza di una oscura regia che nell’ombra manovrava accortamente uomini che contavano, potenti e temuti, inseriti in posti di responsabilità con grande capacità d’azione, detentori di punti chiave dell’apparato di comando da cui poter imporre decisioni, dissentire, argomentando ordini e disposizioni per annullare direttive o snaturarle, proporre e attuare trasferimenti di uomini e unità miranti ad ottenere determinati risultati convogliati dal misterioso regista ad una ben precisa finalità: far cadere il regime fascista e i suoi uomini, imporre una svolta decisiva all’alleanza con la Germania, uscire fuori dalla guerra e, se si presentavano le necessarie condizioni per agire, passare in campo alleato. Una serie di eventi inseriti nel programma occulto di Badoglio, che stava gradualmente trovando applicazione con l’appoggio della casa regnante, dei partiti antifascisti, degli ambienti finanziari-industriali, del clero e di una frangia del PNF facente capo a Ciano, Grandi, Bottai e altri personaggi minori fra cui il capo della Polizia Senise e alcuni diplomatici. Un complotto allargato che troverà concreta applicazione l’anno successivo col colpo di stato del 25 luglio.

            Per far cadere il fascismo la posta in gioco era rappresentata anche dalla sconfitta militare, dal discredito che avrebbe colpito Mussolini comandante supremo delle FF.AA. con gli insuccessi militari, dalla sfiducia che il Re dopo molte esitazioni avrebbe manifestato al suo Capo del Governo e dalla eventualità di possibili dimissioni volontarie o imposte del Duce.

            Per realizzare tali presupposti, coloro che potevano liberamente manovrare senza dare adito a sospetti erano i capi militari inseriti nella congiura, uomini potenti che detenevano stranamente, nonostante molti pareri negativi, il potere decisionale nei posti chiave dell’apparato militare. Chi erano costoro? Nel 1940, Roatta era sottocapo di SM/RE, assente il suo diretto superiore maresciallo Graziani comandante supremo in Libia, mentre Badoglio era Capo di SMG. Dopo la disastrosa campagna di Grecia che provocò l’allontanamento di Badoglio, responsabile in primis dell’impreparazione delle FF.AA., Roatta rimase impensatamente al suo posto di comando anche sotto Cavallero, avversario da sempre di Badoglio, anzi diveniva Capo di SM/RE nel marzo 1941 per essere poi sostituito nel 1942 nella carica dal Generale Vittorio Ambrosio, già comandante della 2° armata in Jugoslavia, al cui comando subentrava stranamente lo stesso Roatta che provvedeva, inusualmente, a svincolarla dalla diretta dipendenza di Superesercito; successivamente lo stesso prendeva il comando della 6° armata in Sicilia, senza peraltro attuare nell’isola tutte le misure difensive atte ad evitare la facile conquista da parte alleata, come poi si verificò.

            El giugno 1943 ritornava, altrettanto inusualmente, a fare il Capo di SM/RE dopo che Ambrosio, con l’appoggio di Ciano, di Vittorio Emanuele e l’avallo di Mussolini aveva sostituito nel febbraio 1943 il filotedesco maresciallo Cavallero come Capo di SMG. Il gioco era fatto. Due uomini importanti del clan Badoglio che da sempre detenevano saldamente posti chiave al vertice militare delle FF.AA., che avevano controllato ininterrottamente da prima della guerra alla vigilia dell’armistizio lo SM/RE e successivamente anche il Comando Supremo, salvo un breve periodo di soli 4 mesi in cui si avvicendarono nella carica di Capo di SM/RE i generali Rosi e Di Stefano tanto per non suscitare sospetti, che complottavano troveremo puntualmente l’8 settembre 1943. Sorprende non poco, come siffatti personaggi abbiano avuto sempre il placet di Mussolini, forse su pressioni del Sovrano, pur ricevendo il Duce assieme a personaggi minori, informazioni confidenziali e riservate che avrebbero dovuto quanto meno suscitare fondati sospetti. Infatti, fra i documenti rintracciati all’A.C.S. troviamo una velina anonima riguardante il generale Mario Roatta, documento questo rinvenuto recentemente dall’autore (ACS-SPD/CR b./73) inviata a Mussolini nel 1942 che denunciava: “contrastanti direttive operative in difformità d’azione nei diversi scacchieri di guerra, erronei apprezzamenti sulle forze nemiche, rifiuto di fornire adeguati rinforzi di truppe e mezzi ai comandanti responsabili, fra cui il generale Visconti-Prasca in Albania, mentre l’interessato sotto il profilo personale, lo si definiva di animo insensibile, capace di ogni abuso, oggetto di disistima persino dai suoi più fidati collaboratori”.

            Per realizzare il colpo di Stato, era necessario allontanare da Roma e dal Lazio tutti i reparti su cui si nutrivano dubbi sull’osservanza assoluta degli ordini (in primo luogo i paracadutisti) avvicendandoli con G.U. di provata ubbidienza e disciplina, affidate a uomini sicuri; un piano questo iniziato gradualmente nel luglio 1942 con l’allontanamento della “Folgore” e completato l’anno successivo con il trasferimento della “Nembo” in Sardegna e dei reparti speciali N.P. in Francia; col 10° reggimento arditi frazionato in Sardegna e Sicilia, dopo aver dissolto con impossibili missioni di aviolancio in nord Africa, il fior fiore dei sabotatori attesi spesso dal nemico e catturati ancor prima di agire. Unica eccezione: il mancato trasferimento della divisione corazzata “M” destinata nelle Puglie ma rimasta bloccata nell’alto Lazio dagli eventi (la “Nembo” farà tristemente la fine della “Folgore”, frazionata opportunamente in due tronconi, decimata dalla malaria, suddivisa fra Sardegna e Italia meridionale). In sostituzione dei reparti allontanati arrivavano GG.UU. già operanti in Jugoslavia con la 2° armata di Ambrosio e Roatta: “Granatieri di Sardegna”, “Re”, “Lupi di Toscana”, “Sassari” mentre la motorizzata “Piave”, destinata da tempo all’A.S., venne ingiustificatamente trattenuta in patria a disposizione del comando Superesercito, quando la sua presenza in A.S. era più che necessaria.

            Pur lavorando nascostamente con tali favorevoli premesse, la regia del colpo di stato sbagliò completamente la conclusione, anche dopo il riuscito arresto di Mussolini a Villa Savoia, e il secondo atto della tragedia si tradusse in un disastro immane che coinvolse tutti gli italiani, dissolse miseramente le FF.AA innescando un irreversibile processo di autodistruzione nazionale in cui regista, attori e marionette pagarono col disprezzo degli italiani, di ex amici e di nemici la loro partecipazione e finirono emarginati per sempre dalla storia.

            Nella primavera del 1942, la cambiata atmosfera nei comandi di Roma, avvertita, intuita, sussurrata dai più sensibili e intelligenti ufficiali di S.M. introdotti nei misteri di Palazzo Baracchini, non era sfuggita ad esempio al tenente colonnello Alberto Bechi-Luserna, un ufficiale superiore dei paracadutisti, pluridecorato, brillante scrittore di argomenti militari, attaché militare a Londra, profondo conoscitore dell’ambiente militare anglosassone di cui aveva descritto tradizione e folklore in “Britannia in armi”, compilando anche durante la guerra, un opuscolo di propaganda dal significativo titolo “La falsa democrazia della Gran Bretagna”. Bechi, conosciuto e stimato nei circoli diplomatici e molto introdotto nell’ambiente esclusivo del Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, di cui godeva l’amicizia e la considerazione, convintosi che i paracadutisti per volontà dello SM/RE non sarebbero mai stati lanciati in battaglia (profetiche parole) e che la preparazione della C.3 sarebbe stata seriamente compromessa da tale preciso intendimento, scriveva una lettera confidenziale al colonnello pilota Giuseppe Casero, segretario del capo di SM/RA generale Rino Corso Fougier, del seguente tenore: “I paracadutisti, posti come sono alle dipendenze dell’Esercito non vanno. Incomprensioni, interferenze, ritardi di ogni genere ne turbano seriamente l’efficienza. Già da tempo mi ero convinto, ma ora ho l’appoggio del generale Ramcke che aveva esposto al Duce la necessità di trasferirci all’Aeronautica, in quanto ritiene che, ogni nostra futura impresa sarebbe destinata al fallimento o a sterili risultati. Il parere è pienamente condiviso da noi tutti ufficiali paracadutisti. Io spezzo una lancia apertamente in proposito di una delle nostre più diffuse riviste militari. Tanto per tua norma acciocché possa, se lo ritieni opportuno, renderne edotto l’Eccellenza Fougier. Tuo Alberto Bechi Lucerna. Roma Aprile 1942” (ACS-SPD/CR).

            Questa era dunque l’atmosfera esistente alla vigilia dell’attacco a Malta, con i soldati e gli ufficiali pronti ad agire e a sacrificarsi per tale importante operazione e i comandi responsabili intenzionati ad annullare ogni sforzo e snaturare ogni previsione per far fallire l’operazione ancor prima dell’attacco. Non più supposizioni o ipotesi ma una avvilente realtà chiamata anche sabotaggio. A dare una mano ai congiurati di Roma, provvedeva indirettamente dall’A.S. il neo maresciallo Rommel, corresponsabile in prima persona della negativa svolta strategica dell’estate 1942, anteponendo alla conquista di Malta, fattibile e già decisa al superiore livello italo-tedesco, il proseguimento dell’avanzata verso l’Egitto. Un discutibile piano di soggettiva valutazione, incerto risultato e istintiva valutazione, che avrebbe rimesso in discussione l’operazione C.3 e scosso ancor più, la tiepida comprensione dimostrata per la “Hercules”  dal Fuhrer e dall’OKW duramente impegnati contro l’URSS. La caduta improvvisa di Tobruk indusse Rommel al gran colpo: continuare l’avanzata in Egitto, anche contestando ordini superiori, nella convinzione che i risultati della sua insubordinazione avrebbero indotto i comandi italo-tedeschi all’indulgenza.

            Sarebbe aumentato il suo prestigio personale nella pubblica opinione, nella considerazione di amici e nemici, convinto, com’era, che sarebbe bastata una semplice spallata, vigorosa ma decisa, a far crollare la residua resistenza dell’8° armata inglese in ritirata verso il delta, conquistare quindi il canale di Suez e penetrare nel Medio Oriente. Alla conclamata e prevedibile riluttanza del più cauto e avveduto maresciallo Bastico, comandante superiore delle FF.AA. dell’A.S., al pensiero del rifiuto che avrebbero opposto il neo maresciallo Cavallero, lo stesso Mussolini e il suo diretto superiore Kesselring a posporre la C.3 per l’Egitto, Rommel rispose a modo suo: saltò a piè pari la scala gerarchica italo-tedesca, l’OKH e l’OKW chiamando direttamente in causa il suo Fuhrer coinvolgendolo personalmente nella sua irrazionale visione per far leva sul Duce. Hitler, impegnato a fondo in Russia non si fece pregare; chiamò Mussolini, indeciso e titubante per il meditato pensiero del suo capo si SMG che anteponeva Malta alle piramidi, per riaffermare con coerenza il principio delle decisioni collegiali per la C.3 al confronto col piano avventato, audace ma aleatorio del riottoso feldmaresciallo ambizioso e impulsivo.

            Nelle remore delle risposte del Duce e di Cavallero, Rommel, anticipando le conclusioni e attuando il suo collaudato e personale autonomo comportamento, già positivamente applicato in altre occasioni, proseguì isolatamente l’avanzata oltrepassando la frontiera egiziana, su cui avrebbe dovuto fermarsi, giunse alla strettoia fortificata di El Alamein con pochi uomini e scarsi mezzi dopo aver disseminato la “Balbia” e la litoranea egiziana di centinaia di veicoli fuori uso, bisognevoli di riparazioni. Lo attendevano a piè fermo gli inglesi di Ritchie e solo allora si rese conto della realtà: in quelle condizioni non avrebbero potuto proseguire anche perché l’8° armata era tutt’altro che distrutta. Era necessario sostare, riordinarsi, attendere i rinforzi e i rifornimenti promessi: soprattutto il prezioso carburante di cui si avvertiva la grande necessità. Un attacco sferrato da Rommel ai primi di luglio con 6.500 uomini, 30 cannoni e 150 carri armati venne respinto dai 25.000 inglesi con 120 cannoni, 121 carri e il concorso di 550 aerei della RAF.

            Pochi giorni più tardi giungeva l’autorizzazione di Mussolini e di Cavallero, convinto il Duce dal demagogico telegramma del Fuhrer: “…la dea della fortuna passa soltanto una volta accanto ai condottieri…” e Mussolini, sollecitato da Hitler, dovette a malincuore diramare l’ordine di: “…far avanzare l’ACIT oltre la frontiera egiziana”, ordine formale ma non rispondente alla realtà, assecondato dal riluttante Capo di SMG che da tempo si trovava in A.S. per seguire da vicino la situazione, seguito gerarchicamente dal maresciallo Bastico, ugualmente non convinto della situazione creatasi.

            Il primo problema messo sul tappeto da Rommel, riguardava il rafforzamento dell’ACIT (Armata Corazzata Italo-Tedesca) con GG.UU. fresche, seguito dall’invio di materiali e rifornimenti, provvedimenti questi che coinvolsero negativamente la divisione paracadutisti, offerta inopinatamente dai congiurati romani, con la favorevole opportunità avanzata da Rommel.

            Dal canto suo l’OKW, su sollecitazione del Fuhrer, sensibilizzò Kesselring, comandante dell’OBS in Italia, affinché facesse il possibile per soddisfare le richieste di Rommel, sollecitamente, anche se Kesselring non disponeva affatto di G.U. e le uniche disponibilità erano date dalla presenza di 4 residui battaglioni di Fallschimjager, assegnati per l’occupazione di Malta, reparti che rinforzati con sezioni genieri, PAK e trasporti costituirono la brigata z.v.B. (di formazione speciale) affidata al generale Bernard Ramcke; l’esperto ufficiale paracadutista cui era stata affidata la supervisione della preparazione dei paracadutisti italo-tedeschi per la C.£. Contemporaneamente l’OKW, disponeva che il comando OBSO (Grecia) rendesse disponibile la m164° I.D., allertasse la 22° Luftlande a Creta mentre la Luftwaffe metteva a disposizione la 19° Flak brigade (36 cannoni da 88/55) di grande utilità nel deserto.

            Dal Villaggio “Berta” dove si trovava, Cavallero si mise in comunicazione col Comando Supremo a Roma e col Superesercito chiedendo qual’era la disponibilità di GG.UU. per l’A.S.nel contesto delle 75 divisioni in servizio. La risposta laconica e deprimente che ricevette fu la seguente: “disponibile div. ftr. ‘Pistoia’ in fase di rimpatrio dalla Grecia (verrà inviata alcuni mesi più tardi in A.S. con autocarrette SPA/CL. 39 inadatte al deserto poi sottoposte a modifiche strutturali); possibilità di trasformare in unità tipo A.S. la div. ftr. ‘Superga’ (andrà a dicembre in Tunisia). Disponibilità immediata: reparti semoventi, genieri, artiglieria c.a.”. In linguaggio corrente non c’era niente di pronto per l’A.S. a dimostrare l’imprevidenza, la superficialità, l’irresponsabilità da parte italiana, di non poter convenientemente sfruttare con adeguate GG.UU. l’eventualità di una travolgente avanzata dell’Asse verso il canale di Suez, se riusciva il piano di Rommel. Cosa era possibile ottenere come risultati da divisioni appiedate e artiglieria ippotrainata?

            Cavallero incredulo per tanta desolante povertà, insistette ancora ma ricevette la seguente risposta: “Comando Supremo per Supercomando AS-15.7.1942-XX n. 31564.

            Per signor maresciallo –in ottemperanza vs. disposizioni verbali et vs. odierno telegramma di superiore approvazione provvedimenti noti, rappresento quanto segue: Parte prima –disponibile divisione Frattini (paracadutisti) che con aviotrasporti intensificati al massimo et considerando che velivoli debbono portare anche carburante per viaggio di ritorno, provedesi arrivo divisione entro primi giorni mese di agosto. Qualora fosse possibile effettuare rifornimenti carburante per viaggio ritorno velivoli, si conseguirebbe maggiore disponibilità carico in andata così che aviotrasporto divisione risulterebbe accelerato di circa una settimana rispetto data suddetta. Conferito stamane con eccellenza Riccardi et Santoro per cui est assicurata possibilità invio benzina avio occorrente at mezzo sommergibili”. Seguivano nel testo a firma generale Magli, varie altre ipotesi e considerazioni circa la scelta per trasformare una G.U. standard di unità tipo A.S./42 (maggiore disponibilità automezzi, cannoni CC., più ridotti ma compatti organici divisionali) selezionando “Pistoia”, “Friuli”, “Piave”, “Brennero” (quest’ultima in Grecia) doveva trasformare il rgt. Artiglieria da ippotrainato in motorizzato (traino meccanico con trattori TL.37 e carrello elastico) trasformazioni che richiedevano da 40 a 60 giorni, motivo questi che escludevano una immediata disponibilità lasciando in tal modo come ultima ipotesi la divisione “Frattini”. Tale residua possibilità, se da un lato esaltava Cavallero dal dover doverosamente rifiutare il concorso italiano, dall’altro lo poneva in condizioni di far fronte con analoga offerta di aviotruppe alla decisione tedesca e fu quest’ultima opportunità ad influenzare ogni residua remora nel quadro della mortificante prospettiva presentata da Superesercito. In tal senso Cavallero telegrafò al Generale Magli del Comando Supremo: “A vs. 31564 deta 14.7.1942 parte prima: La divisione Frattini dovrà essere sbarcata a Tobruk. Sarà provveduto rifornimento carburante per ritorno. Est però necessario che sommergibile parta subito non potendosi anticipare carburante per durata superiore tre giorni. Parte seconda: condivido considerazioni su ‘Brennero’ (trasformazione del 9° rgt. Art.). Parte terza: sta bene per trasporto ‘Pistoia’ dalla Grecia con completamento armamento in A.S./42. Parte quarta: lascio at comando supremo regolare inserimento aviotrasporti per altre esigenze da voi prospettate. Parte quinta: procedete approntamento ‘Brennero’ Cavallero; inoltre, su conforme parere di Supercomando ASI, veniva stabilito che la divisione scelta paracadutisti, sarebbe stata impiegata temporaneamente come fanteria, fino a che le circostanze non ne avessero permesso il suo impiego caratteristico”. In effetti il C.S. sacrificava l’unica divisione di aviotruppe, peraltro incompleta del R.E., imposta e presentata con un pianificato programma di trasporto: un vero colpo di mano arbitrario e scontato. Delle decisioni prese veniva informato Mussolini che da tempo si trovava in A.S. al villaggio “Berta”, il quale non condividendo in toto i provvedimenti presi approntava una relazione-direttiva dal titolo “Considerazioni sulla situazione militare” in cui fra le altre valutazioni stabiliva alla lettera f): fare affluire gradatamente verso lo schieramento le divisioni non ancora impegnate (“Bologna” “GG.FF.”) e quelle in arrivo o predisposte (paracadutisti, “Pistoia”, “Brennero”) avendo cura di non stipare eccessivamente il fronte con unità che non posseggono un minimo di automobilità”.Una evidente preoccupazione personale che teneva in debito conto le passate e negative esperienze in A.S. che avevano causato l’annientamento di almeno 14 G.U. nei precedenti anni di guerra, travolte appiedate da masse moto-corazzate nemiche.

            In ottemperanza a queste direttive, Cavallero con ordine n. 149 diretto a SuperASI stabiliva al paragrafo E): “I battaglioni paracadutisti sono stati assegnati all’arma corazzata per fronteggiare le necessità più urgenti, ma è inteso che, a schieramento assestato, questi battaglioni dovranno essere recuperati, salvo a determinare la più appropriata dislocazione in relazione anche all’impiego che il comando dell’arma farà dei paracadutisti germanici. Dell’intenzione di recuperare i battaglioni paracadutisti, converrà preavvisare il comando dell’armata corazzata. Cavallero”.

            Gli intendimenti di Rommel, meno riguardosi ma più pratici nella prospettiva di rafforzamento dell’A.S., miravano invece a utilizzare i paracadutisti in difformità di quanto previsto da Mussolini, Cavallero e Bastico, poiché egli intendeva estendere lo schieramento a sud di El Alamein impiegando il “Bologna” e la divisione “Frattini” in arrivo, arretrare “Ariete”, “Littorio”, 15° e 21° panzer e 90° leggera da utilizzare con la “Pistoia”, gabellata come motorizzata, come massa di manovra. La situazione statica sarebbe ulteriormente migliorata con il previsto arrivo della 22° Luftlande (alla data 28.7 non era ancora giunta in A.S. la “Ramcke” che contava 4.500 paracadutisti, migliori armamento individuale e di reparto rispetto agli italiani, maggiore mobilità e più servizi).

            A queste considerazioni di ordine generale, dobbiamo aggiungere i motivi per cui si giunse a proporre per l’A.S. la divisione “Frattini” con maggiori organici rispetto alla “Ramcke” (circa 1.500 uomini) ma con minore e più scadente armamento, nessuna disponibilità di automezzi, attrezzature tecniche, materiali campali e ordinari: un confronto da cui la divisione italiana usciva senz’altro penalizzata. Era certamente più idonea per l’A.S. una qualsiasi delle G.U. assegnate per la C.3 da trasformare in modello AS/42, oppure inviare, come prospettato dalla SM/RE ma non attuato, la motorizzata “Piave” (verrà arbitrariamente negata a Cavallero e tenuta come riserva da Superesercito per essere utilizzata nella difesa di Roma nel settembre 1943). Era più idonea ad esempio l’aviotrasportabile “La Spezia” con organici a livello div. ftr., maggiore componente di artiglieria, addestrata come fanteria di linea e predisposta psicologicamente e praticamente a tale impiego, che non la divisione paracadutisti, addestrata per l’operazione veloce e limitata nel tempo, il colpo di mano su un importante obiettivo, maggior elasticità mentale per impiego e preparazione: una serie di interrogativi che non troveranno risposta alcuna e convincenti giustificazioni.

            In questa situazione andava aggiunta la personale frustrazione di Mussolini, che da tempo si trovava in A.S. chiamato prematuramente da Cavallero con la parola convenzionale “Tevere” (imminente vittoria in Egitto) confinato al villaggio “Berta”, inoperoso, insofferente per la situazione che constatava amaramente di persona, deluso da Cavallero, snobbato da Rommel (il feldmaresciallo non si fece mai vedere) in attesa come gli altri di qualcosa che non poteva verificarsi.

 

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